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Davide Rocco Colacrai 2021
LAGUNANDO 2021 > selezionati 2021
Giurista e Criminologo, partecipa da tredici anni ai Premi Letterari e nel frattempo ha ricevuto numerosi riconoscimenti, internazionali ed europei.
Tra gli ultimi: il Premio come “Poeta dell’anno” all’omonimo Premio Internazionale organizzato da otma2 Edizioni, il Premio Letterario Città di Cattolica “Pegasus Literary Awards”, il Premio “Città di Grottammare” e il Premio Letterario Nazionale di Letteratura Italiana Contemporanea organizzato da Laura Capone Editore.
Autore di nove libri, nel tempo libero, insegna matematica, studia recitazione, è autore radiofonico per whiteradio.it, colleziona 45 giri da tutto il mondo (ne possiede duemila), ama leggere, praticare sport all’aria aperta con il suo cane Mitty e viaggiare.
LEGGERE LAGUNE
POESIE
Il posto solitario delle cose nascoste
dedicata a Ercole (Isola di San Servolo, 1961)


Ercole è guarito, ha i capelli lunghi e il corpo muscoloso come non lo ha mai avuto. È in piedi su un muro di mattoni, tutto nudo che pare un sirenetto,
le braccia alzate come un tuffatore, il torace gonfio. Gli alberi dell’isola sono versi alle sue spalle, la laguna è blu di fronte a lui, il sole splende. È estate.1    


Aveva cose troppo grandi per lui impigliate nel cuore, Ercole,
che si concentravano in un assolo di luna nera
dove la pelle segnava la sorte,
demoni di paese si protendevano senza amore
a rendere il suo abbraccio un guscio vuoto di conchiglia
dove a malapena si innamoravano i giorni
e favorire il profilo curvo della sua ombra
che prosciugava lentamente il nome in un seno di pietra
e lasciava tra le labbra del cielo spine di pioggia,
l’innocenza capovolta
e il crudo disincanto dell’esilio
che stringeva quanto rimaneva dell’uomo in un vecchio
e ne spegneva a poco a poco gli anni da vivere
al bambino che era

con gli occhi chiusi si lasciava accarezzare dall’eco del mare in un bacio
sospeso in un brivido d’oro
che il cielo gli aveva svelato tra le mani come portafortuna
a ricordargli che aveva pure lui un cuore,
nudo come lo erano le notti
in cui crocifisso come le lancette di una clessidra senza sabbia
aspettava che il fratello si mostrasse
e lo portasse con sé
era il ricordo a salvarlo dalla follia di Dio
salvando il seme azzurro di ciò che ancora pulsava come il grembo vivo di una ninnananna.

Aveva cose troppo grandi per lui impigliate nel cuore, Ercole,
che lasciava dipanare in schizzi di primavera
dove non osavano i rapaci

lontano da quel Sinai che lo stava bruciando con le sue lingue dai mille tritoni in un sussurro d’arcobaleno senza sogni.





1Da L’estate del cane bambino, Mario Pistacchio e Laura Toffanello, 66th and 2nd
Sull’Isola di San Servolo, l’isola più prossima a Venezia, sorgeva un Ospedale psichiatrico, chiuso nel 1978 per effetto della Legge Basaglia. Nessuno di noi sapeva che razza di posto fosse San Servolo. L’isola dei matti, tutti la chiamavano così. I grandi cercavano di non parlarne davanti ai figli, le donne si facevano il segno della croce e poi dicevano che era un gran fortuna che nessuno tra quelli di Brondolo ci fosse mai andato.[…] San Servolo, più che un ospedale, sembrava una prigione. […] In due secoli e mezzo di storia, la struttura ha registrato più di duecentomila ricoverati, una media di ottocento all’anno, fra tranquilli, pericolosi, malinconici, sani, malati, scomodi. Quello che non poteva rimanere fuori lo mandavano dentro, funzionava così. […] Venivano internati anche i reduci di guerra, gli alcolizzati, le ex prostitute, gli handicappati, gli omosessuali e quelli che avevano tentato il suicidio. […] Ma anche i ragazzini troppo vivaci.

Trilogia dell’addio II – L’universo in una mano
(in memoria delle vittime della Strage del Salvemini – 6/12/1990)


Ci sono giorni in cui un’equazione fa capolino come una madre
la cui eco che ne racchiude gli stessi ossimori
ci sorprende col fiato stretto tra le costole,
ci sono giorni in cui i versi di un poeta formano un varco
con cui superare l’orma di una risposta
che ci fa sentire meno soli davanti all’universo nella nostra mano
e più grandi quando l’appello della vita si condensa
in un batticuore che si apre a una sciarada di Dio,
ci sono ancora giorni che si dilatano
e strisciano lentamente tra sogni che ci restano addosso
mentre lontane storie diventano pagine
ognuna pesante quanto pesano i nostri quindici anni
e preme il desiderio di aria e di azzurro
in un concerto di pensieri che trasforma l’attesa in lunghi minuti di ansia
e il resto in parole fragili, come di foglie.

Ė un dicembre pulito come il più vero dei sentimenti,
ci abbraccia in una famiglia
dove ogni istante, anche una prova che ci tormenta, ne conferma l’appartenenza

il perché di ognuno nella seconda A.

Non eravamo preparati a questa ora
che ha tinto con le fiamme del cielo il ventre di nostra madre in un inferno cavo,
l’ultimo batticuore un respiro a metà,
le urla pallide farfalle che si disperdono,
un brivido caldo che consuma l’ombra dei nostri corpi,
il ricordo del legno imperfetto del banco che si addolcisce,
la lavagna il nostro ultimo orizzonte,
la lezione di tedesco a bruciare nei frammenti indefiniti di una babele
nella quale molti di noi siamo già fiori di cenere
che il sole lascerà fiorire con i nostri nomi in un presepe d’amore al mondo

come angeli che esplorano l’universo che si svela dal cuore.
La mia creazione e Dio
(dedicata agli angeli senza ali che ci aspettano nei canili)


Sono un batticuore d’ombra a filo della polvere,
figlia di una notte che arranca lungo imposte addormentate in punta di piedi,
il freddo a mordere il mio asse,
il silenzio che si gonfia in un vuoto a pelle
nel desiderio di una mano,
le vertebre strette come piccoli cuori
a segnare i miei ossimori,
addosso brividi che mi percorrono come frammenti di lucciola e d’inferno
nello schiudersi a una rosa di sconforto

sono sospesa in un fazzoletto
con cui Dio non riuscirebbe ad asciugare tutte le sue lacrime per noi,
di cemento e assenza, d’argilla umida di noia,
un mare che liscia il grembo di costellazioni sfuggite
col mondo compresso nello spazio
tra una nostalgia e l’altra,
ricorda il cielo in quei giorni in cui si arrabbia e sporca i colori,
crea sentieri senza sogni
nella pietà crocifissa dalla pioggia
le ore si condensano in un soliloquio con gli angeli
di là dai confini che nutrono i miei occhi,
è un respiro che tace
come tace la parola degli anziani nel grattare l’azzurro della luna,
le mie ossa ricordano le attese
che l’orizzonte costringe a rami infermi
quasi a tracciare il profilo in corsivo della mia prigione
e della mia fortuna.

Sono un batticuore d’ombra a filo della polvere,
tra ragnatele di stelle
a predire la mia creazione come punto interrogativo all’infinito

sulla punta della coda, la mia ultima preghiera.
Lettera a una donna che non è
Per pesare il cuore con entrambe le mani ci vuole coraggio
e occhi bendati, su un cielo girato di spalle2


Con il corpo circonciso dalle spine nude di un uomo
nella solitudine di una lettera abbandonata nel vuoto del letto
e il cuore stretto in un respiro di ombre
che ancora attende il conforto
la metà di niente che pesa quanto il doppio dell’eco
in cui si sono prosciugate le vene
e la corona di stelle a mitigare il dolore
in cui si stringe l’arcobaleno vermiglio di un tramonto
che si pronuncia dal tuo ombelico senza sogni
e il roveto dell’anima che brucia
come brucia l’apocalisse che ha infuriato nel tuo grembo
nella cenere di una casa che casa non era
nel ricordo scioltosi come neve
e la lancetta dei secondi a infrangere l’attimo
impudica nella sua volontà
di attraversare l’arpa stonata della morte
mentre labbra fragili di ostia sussurrano una ninnananna
all’orecchio di Dio

il silenzio di un coro di rossetti che non è a scrivere il tuo nome

provi ad allungare l’indice
per asciugare il cielo dalle sue lacrime
che sciolgono l’orizzonte in parole confuse che non sanno d’amore

e incontri fantasmi azzurri che ti prestano un fazzoletto.

Ognuno nel gesto di darti il suo benvenuto.





2Il conforto, Tiziano Ferro e Carmen Consoli
Eravamo nudi, come piccole lumache (Dachau, 1938)
Nessuno più conta giorni e settimane, molti più nemmeno gli anni3


Eravamo nudi
come nell’atto con cui abbiamo benedetto il mondo
con il nostro liquido amniotico
attraverso gli spazi d’amore delle nostri madri,
con i nomi sondavamo l’orizzonte
nell’urgenza di una scia che ne confermasse
il roseto di carne a questo brindisi,
i nostri corpi, muti come arpe, si ostinavano
tra schizzi di stimmate
che il filo spinato lasciava fiorire come costellazioni
nella bocca di un melograno d’inverno,
i capelli pulsavano ai nostri piedi
come semi d’azzurro, ignari
se destarsi o lasciarsi andare con un padrenostro,
avevamo negli occhi,
sottili come ombre di cirri, gli ultimi ricordi
che formavano un alito amaro,
di fango e cenere, di stelle comete divorate dai lupi
e di silenzi che le urla che si esaurivano
senza eco mordevano.

Eravamo nudi
con il costato rosa di un’alba offerto al cielo
come mani in attesa della pioggia,
la vita stretta tra i denti,
il cuore cavo, con un giardino spoglio d’amore
e il fremito crocifisso nel ventre.

Eravamo nudi,
ognuno senza guscio, piccole lumache molli di dolore
dove la terra bruciava senza sogni.





3La Dachaulied (canzone di Dachau) fu scritta nel 1938 da due prigionieri di Dachau, Jura Soyfer e Herbert Zipper.
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